SUPER SANTOS – Bar Sport “Talento Sprecato O’Neill”

La storia di Fabiàn O’Neill, un bicchiere mezzo pieno di rimpianti

O'Neill ai tempi del Cagliari

Fabiàn O’Neill ai tempi del Cagliari

Ci sarà un posto lontano da sguardi indiscreti e lingue lunghe, nella discarica dell’umanità, dove gli scarti della società, i perenni sconfitti e gli ultimi, smarriti sulla via del non ritorno, possano trovare un po’ di pace. Il luogo non è presente nelle mappe, non compare in nessun libro né è possibile trovare le coordinate per arrivare a destinazione. Si finisce confinati nel Paese dei Falliti per caso, per ragioni spesso inspiegabili, bivi sbagliati, traumi non superati, vite buttate all’aria con scelte deleterie e autodistruttive. Sensi di colpa e difficoltà nell’accettarsi danno il colpo di grazia e valgono il biglietto di sola andata, con poche possibilità di ritorno a casa. Gli ignavi che vi arrivano, sballottati a caso dalla sorte, mettendo come prerogativa la fuga dalla realtà tentano di allontanarsi da un fato sgradevole. Cercando di scappare dalla vita prima che la vita finisca, cadono in quella nevrosi da destino che colpisce i masochisti, i quali, inconsciamente, s’involano verso il disastro, danneggiandosi.




All’entrata del paese, nel centro d’accoglienza per i nuovi arrivati, potete trovarci le più svariate tipologie di persone e di ceto sociale: ragazzi senza futuro ammassati in attesa del “treno giusto” sul ciglio del marciapiede, donne con gli occhi rigonfi e tiroidei che rimangono in vita collegate, con uno spinotto, ai social media, borghesi con gessati lerci e 24 ore piene di cartacce a cui danno valore. Illusioni. Tutti falliti, diversi nel passato, uguali nella sconfitta. Ottenuto il pass per l’ingresso, i nuovi cittadini possono entrare nel centro adibito allo smistamento, avendo la possibilità di scegliere di rilasciare i bagagli allo sportello o portarseli sul groppone per tutta la durata del soggiorno. La decisione spetta a loro. Non è facile dimenticare chi si era, cambiare vita. Per la maggior parte dei Falliti, un semplice successo è un remo sul quale aggrapparsi in piena tempesta, un piccolo diamante che brilla in un mare di pece, un’iperbole fittizia e accecante, una medaglia al valore in un petto incurvato e dilaniato da bastonate. Chiudere definitivamente col passato ed iniziare da capo o convivere con la perdita? Che fare? Le scelte sono queste due dopo esser diventanti dei veri falliti.

 

Il gregge di persone, aperti i cancelli, corre all’impazzata, senza sosta, alla ricerca di un modo che funga da calmante per sopportare l’agonia, apporre un freno al travaglio, un tranquillante, un allucinogeno per dare alla sconfitta un altro colore, metterle addosso un abito e guardarla sotto un’altra luce. Con cosa? Col vizio. Ognuno ha il suo. Gli agglomerati urbani e i vari quartieri sorti in base a scelte dettate da comuni tendenze. Ecco allora scorgere vie di guerci pensionati prossimi a rifocillare slot affamate di fiches (sempre per la gioia del sindaco), periferie di tossici assuefatti da droghe sintetiche, eroinomani, rave, vicoli ciechi di impenitenti senza vie di fuga. Le strade abbondano di relitti ammassati agli angoli prossimi a marcire.
In prossimità del centro storico, mai terminato, compare un complesso residenziale abusivo in calcestruzzo, coperto da un cancerogeno tetto in amianto e pvc (realizzato da un ex ambientalista dei Verdi), che sfuma nei bagliori del periferico quartiere delle celebrità fallite. Villette a schiera barocche e rococò portano i segni di uno splendore passato, un trascuratezza visibile nei giardini neri dai sacchi d’immondizia ristagnanti dai quali affiorano, in superficie, statue neoclassiche imbrattate, lavatrici rotte (arrugginite da lacrime corrosive) e giornali inzuppati nel fango ritraenti le foto degli illustri proprietari. Il “barrio” è privo di attività di rilievo. Le ex stelle del cinema, i cantanti viziosi e il manipolo di artisti borderline hanno conservato la valigia all’ingresso.

 

Non lavorano, vivono di rendita coi soldi guadagnati in un momento circoscritto di successo che pensano si protragga, ancora, nel tempo. Questi, si riversano, a tarda notte, nelle vie dalle insegne intermittenti in una caotica fiumana sregolata, una movida carnevalesca dove annebbiano la sconfitta, mascherandola a festa, con due gocce di alcool e un filo di trucco. Due tre vie non ancora asfaltate, s’incrociano su un lungomare e sfociano in una piccola piazzetta sabbiosa di rena nera, monopolizzata dalle sedie blu della Quilmes e i tavolini in plastica del “Bar Sport el perdido diez” gestito dal jefe Diego, ritratto in una gigantografia, all’entrata, con la maglia dell’Argentina. Tanfo di alcool, tequile e rum irlandese vengono servite al bancone, nel locale che è un misto tra un pub di O’Conner Street a Dublino e una taverna del quartiere dalla Boca.

 

L’unico barista presente al bancone asciuga i bicchieri, in edizione limitata, della Coppa Rimet con una maglia rossa degli anni ‘60 mentre guarda un giornalista barbuto all’angolo, con le spalle rivolte su una refrigeratrice datata della Pepsi, intento a raccontare le gesta di uno dei personaggi del locale. È riservato e di poche parole. Alza il tono della voce soltanto per chiedere da bere e da mangiare: mezzo bicchiere di Legendario e un piatto di Serrano all’ora di cena. La storia che sta scrivendo può valere il prezzo del biglietto per la fuga. I frequentatori non badano a lui, ad attirare la loro attenzione è un uomo robusto sui 40 anni, un uruguagio di origine irlandese. Dicono che quando esageri con gli shot ed alzi il gomito più del solito, compaia all’entrata un bambino con le ginocchia sbucciate che lo strattona ferocemente, strappandogli la maglietta con foga. La scena si ripete anche quella notte. Il ragazzino, comparso davanti alla porta, ha un Tango del Mundial del ‘82 sotto il braccio sinistro, nella mano destra è racchiusa, in una stretta, quella stanca di una vecchia. La chiama “Abuelita” Mecha. Il bevitore dopo aver fatto un po’ di storie, non volendo scrollarsi dal bancone, si alza di peso dallo sgabello e segue con un passo greve i due nell’ultima stanza del locale.

 

Il piccolo non perde tempo, salta davanti a lui tirandogli la manica della maglia, alza il tono della voce, piagnucolando, chiedendogli che fine abbia fatto, come stia. L’irlandese non risponde. Si rabbuia. Cambia discorso. Vuole parlare di altro. “Che hai fatto oggi ragazzo?” accenna con gli occhi cerulei ed assenti. “Raccontami la tua giornata Fabiàn”. “Che ti dovrei dire Mago? Sono rientrato ora. Lo so che ore sono, non guardare. Son le 3 del mattino. Qual è il problema? Ho venduto chorizo alla porta del bordello con “El Jaquecito”, Ariel Jaques il viejo, e sbrigato un paio di commissioni alle ragazze di calle Zorrilla de San Martin. Manuela ha litigato con un uomo grasso di un pueblo vicino. La ricordi? È arrivata una ragazza nuova da Montevideo. Mi ha preso in simpatia. Di pomeriggio ho incontrato gli amici, al cìrculo, per due birre…”.



 

“Hai 9 anni…” “Lo so, hombre. Ho assaggiato Rum e Cola due giorni fa. Tiene buen sabor.” Continua spavaldo: “Ho fatto 3 gol ai ragazzi più grandi! Eravamo 20 contro altri 20. Pablo pensava di vincere, poi l’ho dribblato e il portiere è rimasto per terra. Caduto, seduto lì a guardare il pallone. 3 gol capisci?” chiude, soddisfatto, la conversazione con il miglior sorriso, poi, prontamente, si avvicina all’orecchio dell’irlandese sussurrandogli: “Mago puoi convincere Abuelita? Non voglio andare a scuola. Non voglio svegliarmi alle 7”. La nonna, silenziosa e contrita fino a quel momento, stringe le dita al bambino con fermezza per non farlo scappare, non vuole perderlo. L’irlandese, non riuscendo a reggere lo sguardo, si alza d’impeto. Vuole tornare a bere. La vecchia, lasciando la mano al piccolo cerca quella del grande e poggiando il braccio sulla sua spalla, lo invita a rimanere ancora, a sedersi davanti alla tv. “Fai vedere a Fabiàn chi eri. Metti la cassetta, gli riconcilierà il sonno stanotte.” Non commenta, segue le istruzioni. “Fabiàn O’Neill sensacional hoy! Es un crack!” le grida del telecronista oltrepassano la porta, volano per il corridoio ed arrivano alle orecchie dei bevitori in sala, del giornalista e del barista che commenta senza scomporsi: “Ci è ricascato. Notte di memorie…”.

 

Fabiàn con la maglia della Celeste

Fabiàn con la maglia della Celeste

“Chi è quel tipo?” chiede il giovane barbuto all’uomo al bancone. “Fabiàn Alberto O’Neill Dominguez. Uno dei più grandi sprechi della storia del calcio. Si è ritirato a 29 anni nel pieno della carriera agonistica. Lo chiamavano El Mago, e mago lo era davvero. Un mago a tutto tondo: oltre al pallone faceva scomparire le bottiglie sul tavolo. Paul alcune notti ha superato pure te negli shot in a beer. Ammettilo”. Un inglese con la faccia scavata dal cognac annuisce con grande enfasi. “Alcool? Ha smesso per questo?” “Non solo. Non ha mai avuto testa. Mai, nemmeno da giovane. La sua carriera è stata una corsa frenetica in una montagna russa di alti e bassi, picchi vertiginosi e rovinose cadute. La vedi quella camiseta appesa in quella bacheca? È la sua ai tempi del Defensor nel suo pueblo, quando era un tredicenne scapestrato. A nord del Rio Negro, in tutta la regione di Tacuarembò, non si sentiva parlare altro che del rubio di Paso de los Toros. Ha iniziato ad incamminarsi verso “El perdido dièz” o “Bar sport talento sprecato”, da presto.

 

Nessuno riusciva a farlo ragionare. Che puoi dire ad uno cresciuto in mezzo a puttane, bische clandestine e galeotti? La madre l’aveva abbandonato, appena nato, alle cure della nonna che ha dovuto sfamare, oltre la sua, le bocche di altri figli e nipoti. Le voci in strada dei venditori, de los callejeros, dei beoni che gli davano pochi pesos in cambio di piccole commissioni, son state le colonne della sua infanzia. E lui ha sempre ubbidito, non ha mai sgarrato con loro o arrecato danno ad alcuno. Se ha fatto del male, l’ha fatto solo a se stesso. Ha sempre pagato il conto alla cassa e se gli avanzavano dei soldi li regalava alla comunità che l’ha tirato su. “Il rispetto è come il dollaro, non perde mai valore ovunque vai”. È stato il motto della sua vita, massima sentita dal primo tecnico che lo ha allenato: Raul “Cotorra” Ramirez.

 

 

Se vuoi capire chi era Fabiàn ti racconterò la storia della finale del campionato giovanile tra Defensor e Huracàn, un derby atteso come quello tra Nacional (sua futura squadra) e Peñarol in Uruguay. Cotorra era disperato perché ad un’ora e mezza dal fischio d’inizio O’Neill non era presente. Corse a casa della nonna per cercarlo. L’aveva visto la sera prima in un club a bere e giocare a carte insieme ad adulti poco raccomandabili e l’esito della serata aveva avuto modo immaginarlo. Mecha lo fermò, dicendogli che il ragazzo, rientrato di mattina ubriaco, aveva solo bisogno di dormire. Il tecnico non ascoltò le voci della vecchia, lo prese dal letto e lo condusse sotto la doccia ghiacciata, gli diede un’aspirina e una Coca Cola e Fabiàn giocò la sua partita. Terminò 4-2 per il Defensor, doppietta del rubio che vinse da solo la partita con i postumi della sbronza. Tutta la sua carriera è stata una corsa continua tra bar e campo.

 

O'Neill

O’Neill in maglia rossoblù

A Cagliari, è capitato di vederlo ancora addormentato, in un circolo, due ore del match delle 3, la domenica pomeriggio. Prima della gara prendeva un bicchiere di vino e poi entrava in campo. Altro che droghe. Spesso appariva visibilmente disorientato in mezzo al campo, alla ricerca di un pallone che non vedeva. Si spostava su una zona ombrosa e giocava là, defilato. La sregolatezza in carne ed ossa. Un peccato perché quando si metteva in testa di giocare, O’Neill si ergeva una spanna sopra tutti. Era un centrocampista completo che sapeva interdire e far ripartire l’azione con lanci millimetrici che serviva sui piedi agli attaccanti mettendoli in condizione di buttare il pallone in rete. Un fantasista dal dribbling secco e il tiro preciso, un dieci di vecchio stampo alla Caniggia, suo idolo, amante del sublime come il Principe che lo portò a Cagliari, Enzo Francescoli. Approdò nel Golfo degli Angeli a 22 anni dopo aver vinto il campionato col Nacional e una Copa America con la Celeste. Purtroppo, come già ti ho detto, la vita, quasi sempre, ti presenta il conto e tu devi pagare, non puoi avere più debiti. Arriva il momento in cui devi scegliere se continuare per la stessa strada o cambiare direzione.

O'Neill con la maglia bianconera (Foto: imago/Contrast)

O’Neill con la maglia bianconera (Foto: imago/Contrast)

Quando fu preso dalla Juventus gli era stata concessa la migliore chance della sua vita, ma Torino non era Cagliari, era tutto amplificato negli eccessi e nelle responsabilità, nella pressione e nelle conseguenze dopo gli errori commessi. Doveva diventare uomo e non lo fece, rimase bambino. Conta questa… indicando la testa. “Capisci? The head”. “Che fece? Poteva sempre tornare in una squadra più piccola..”

“Quando tocchi le stelle, la normalità la vedi come un inferno. Bruciò soldi e talento nel giro di pochi anni. Sbarcò sotto la Mole nell’estate del 2000, acquistato a gennaio da Agnelli. A Torino, da vice di Zidane, non mise mai piede in campo. Il francese, che lo ha definito il miglior giocatore con cui abbia mai giocato, incappò in una delle sue migliori stagioni. Nessun infortunio o squalifiche, fuori e dentro il campo era praticamente perfetto. L’anno successivo, il Real Madrid bussò, di prepotenza, alla porta della Juventus consegnando 73 milioni di euro per le prestazione del capitano dei Blues, O’Neill poté rimettere gli scarpini e ripartire da zero ma non lo fece, continuò con la vecchia vita. Carlo Ancellotti, tecnico dei bianconeri, volle fare di lui un play basso, un “volante” di manovra al posto di Edgar Davids, squalificato 4 mesi per doping. Fabiàn non rispose all’appello. Non era più quello di prima, la classe l’aveva persa, una sera delle tante, nel fondo della bottiglia. Pochi scampoli di partita a Perugia, la rescissione del contratto, il ritorno a Cagliari, nonostante la B, e infine il Nacional, inizio e fine della sua carriera. A 29 anni, nel 2003, nel momento in cui avrebbe dovuto fare il grande salto, Fàbian Alberto O’Neill Dominguez diede le spalle al calcio e servì un due di picche alla sua classe, rimasta a morire, inespressa, dentro di sé”.

 

Le voci del telecronista si interrompono con il singhiozzo del bambino in lacrime. L’irlandese torna solo dalla stanza amareggiato, mette la cassetta in una borsa, saluta tutti e s’incammina verso l’uscita. Il piccolo è sparito insieme alla vecchia, lasciando il Tango bucato per terra. “Fàbian un ultimo giro” grida un brasiliano tarchiato con il nome di un imperatore romano. “No, grazie. Per oggi basta” glissa, stroncando l’entusiasmo del compagno. “George dammi da bere, offro al tipo che scrive…” Il barista guarda il suo interlocutore, aspettando un cenno.” No per oggi passo”. Mette la mano sul bicchiere e continua: “Si può fare qualcosa per rimediare? Me lo chiedo tutti i giorni. Son finito in questo posto per lo stesso motivo. Mi son perso. Mi sveglio e vedo la finestra sbarrata, non vedo sole, nessuno. È sempre notte fonda. Mi alzo tardi pensando al passato, ad eventi che hanno spaccato in due la mia vita e più cerco di ricomporre il puzzle e incollare i pezzi più mi allontano dalla realtà, mi perdo tra fantasmi e paranoie, tra l’angoscia del ieri e l’ansia per il domani. Sono vizioso. Son finito in questo bar per caso. Riprometto a me stesso di andarmene poi ci ricasco: il bicchiere della staffa manda alla malora tutti i piani e rimango ancorato ad aspettare”.

 

“Dov’è la tua valigia?”. “Ho solo questo quaderno di memorie” risponde abbassando lo sguardo. “Lascialo qua e non ripassare, il tuo bagaglio è questo. Strappa l’ultima pagina bianca. Hai tra le mani il biglietto per partire se non vuoi rigonfiarti di sensi di colpa, ingobbirti dal peso e morire come O’Neill senza riuscire più a camminare”.
“E Fabiàn che fine farà?”, chiosa. “Ritornerà bambino come stanotte come molti altri…”.

Fiorenzo Pala

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