Nicolino Locche insieme a Carlos Monzón, pugile e attore argentino, campione mondiale dei pesi medi dal 1970 al 1977.

Nicolino Locche insieme a Carlos Monzón, pugile e attore argentino, campione mondiale dei pesi medi dal 1970 al 1977.

Guardarsi indietro ha il suo peso. Il rischio d’inciampare, cadendo con il muso per terra in una pozza di sangue, è alto. Nicolino non si volta, fa un passo in avanti e procede, a stento, verso la terrazza. Ha fatto a pugni tutta la vita: ha perso la voglia di combattere pure contro se stesso. I guantoni in pelle nera della Corti, racchiusi in una stanza di cimeli nella sua casa a Las Compuertas (dipartimento di Las Heras, Mendoza), sono avvolti nelle locandine dei suoi incontri, dalle quali, nelle notti insonni, riprendono vita gli echi cantilenanti dei cronisti del boxeo, la voce distorta dai microfoni al condensatore di Norberto Florentino e il grado rauco e baritonale, sferzato da alcool e fumo, di Ernesto Cherquis Bialo. “Locche en la cima del mundo” titola El Grafico, giornale sportivo argentino di punta.

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Si guarda allo specchio: è vecchio. Rinvigorisce scorgendo tra le rughe le reminiscenze di tagli del passato. Affonda un dito sullo zigomo sinistro e di riflesso sposta il busto all’indietro, schivando un diretto destro. A vuoto, l’avversario non l’ha preso. Come sempre. Paul Takeshy Fuji, di fronte a lui, non riesce a scorgerlo. Le palpebre, semichiuse dai grumi di sangue rappreso, scompaiono in due sacche violacee sul punto di esplodere a resa. La sua carriera affonda con la fama da picchiatore truculento, scivola fuori dal tempo mentre il corpo rimane sulle corde, atarassico, ad incassare colpi. Il suo allenatore, Eddie Townsand, lo esorta a reagire, a riprendere vigore. “Attaccalo ancora, attaccalo per l’amor del cielo! Non è finita”. Il nippoamericano non ne ha più. Vorrebbe gettare spugna e guantoni, aprire una botola in mezzo al ring e scomparire dall’altra parte del mondo, alle Hawaii magari, dov’è nato. Nicolino osserva a testa bassa, respirando a bocca aperta. Il capo ruota intorno al collo come la punta di ferro di una trottola impazzita. I riflettori lo accecano, qualcuno lo strattona, un uomo gli afferra il polso portandolo in cima al mondo. Applausi e fischi, scatti e flash accecanti dalle muraglia di Nikon e Leifa, cappelli in aria, foto da prima pagina, una bandiera con il Sol de Mayo contesa in spagnolo. L’arena di Tokyo è stata sbancata. Il bruciore provocato dagli spilli pungenti del sapone sugli occhi, sbarrati dal sonno, gli trapassa la retina, l’acqua fredda gli lava i pensieri, riportandolo alla realtà. Davanti ha un uomo sulla sessantina affannato e acciaccato. “Al Kuramae Sumo saranno le nove di sera, l’ora dell’incontro” bofonchia. In Argentina è mattina.

La copertina de El Gràfico che celebra il titolo mondiale di Locche

La copertina de El Gràfico che celebra il titolo mondiale di Locche

Ansima e sbatte la porta. Marìa Rosa, la sua seconda moglie, scrolla le spalle in silenzio tra il frastuono della cinghia di distribuzione e i colpi di tosse, accompagnando con lo sguardo oltre l’orizzonte di campagne e vigneti. Gli amici del barrio, ex boxeadores e gli attempati aficionados del San Lorenzo de Almagro lo aspettano alla caffetteria dell’Automovil Club, vicino a Plaza Indipendencia, per ammazzare la vecchiaia con un mate e una partita a carte con plata. Le fontane barocche e il verde intenso delle fronde dei rododendri di Parque San Martìn è lo stesso di Parque Palermo di Buenos Aires, teatro delle sue corse all’alba prima di ogni grande incontro. Alla vigilia del match contro Fuji, il governatore Juan Carlos Angonia lo scorse mentre lasciava una scia di nuvole grigie sul cammino come una locomotiva furiosa che spaccava in due la Pampa. Lo redarguì, esortandolo a buttare quella dannata sigaretta almeno in allenamento. Non rispose, proseguì dritto. La Jockey con filtro è ancora in bocca a distanza di anni. Non è mutato nemmeno il suo ciondolare in strada, movenze farsesche da torero navigato. Un guizzo ora in avanti, ora di lato, si ferma e striscia dietro in punta di piedi per ritornare con la guardia sinistra alla posizione di partenza: ecco formata la Baldosa, la sua danza sul quadrato. “Una camminata chaplinesca” sentenziò il giornalista e regista Rodolfo Bracelli. “Sul ring si muove come Charlot”. Eduardo Mashwitz, l’11 aprile del 1961, in occasione del match vinto contro Jaime Ginéareci valsogli il titolo argentino, lo consacrò ad “Intocable” e tale rimase per tutta la vita.




Gli inizi, come spesso accade per i predestinati, non furono semplici. La frange più ortodossa dei cultori, restii alle novità, preferiva alle danze da “saltimbanco” le bende bagnate di rosso dei carnefici e la mannaia del boia. Gli ambienti conservatori lo disprezzavano, lo rifiutavano con riluttanza storcendo il naso. “Questo ragazzo non picchia, non si azzuffa. Non è boxe. Cos’è?”. Arte. La massima rappresentazione della tecnica difensiva sul ring. Braccia penzoloni sui fianchi, spesso incrociate dietro la schiena, spalle protese in avanti, sporgenti sulla testa china e incassata, propaggine di un fascio di nervi tesi come le corde del violino di Pablo Saravì. La musica partiva quando i mancati jab e ganci producevano arpeggi e carezze di vento sulla sua faccia. Pugni nell’acqua. Il suo personalissimo spettacolo aveva inizio tra gli “Olè” del pubblico che accorreva numeroso, il sabato sera, al Luna Park tra Corrientes e Calle Buchard, appuntamento irrinunciabile della lunga notte bohemia di Buenos Aires. Nicolino lo showman, il mattatore, l’idolo delle folle e delle donne. Un hombre vertical col carattere del guascone. Elegante. Prodigo nel dispensare strette di mano e battute sagaci ai suoi fedelissimi quando si inerpicava tra le corde, durante il match, lasciando inebetito l’avversario. Il ring era suo, aveva ogni licenza. Si addormentava e si svegliava senza ansia, cinque minuti prima di combattere. Il tempo di una “Pequeña siestita” con il Chigarillo Tracionero tra le labbra. Il tabacco non poteva mancare. Contro di lui ha sempre perso, contro gli altri quasi mai. “Perchè fai il pugile?” chiesero a Barry McGuigan, l’irlandese campione dei pesi piuma. “Mica posso fare il poeta, le storie non le so raccontare…” fu la risposta. Per Locche valeva lo stesso: era venuto al mondo per danzare con i guantoni. I piccoli vizi e i peccati veniali gli venivano perdonati dopo il rintocco del primo gong.

Volge per il pranzo dalla “Mamita” Maria Rosa Gelleni. “Questa volta ho impiegato solo un giorno a trovarli” commenta ridendo con una confezioni di ravioli in mano. Alla sua ex moglie Ana María Corvalán, dalla quale ebbe tre figli, li consegnò dopo una settimana di assenza, in una delle tante fuga insieme al “Pichuco” Troilo y “El Polaco” Goyeneche. Nelle carta da parati che tappezza il corridoio lungo la rampa di scale, tra le magnolie e le orchidee bianche, è appesa una foto datata 29 giugno ‘63 che lo ritrae, in posa, con la cintura di campione sudamericano tra le mani, dopo 15 estenuanti round contro il brasiliano Sebastião do Nascimento. Altri scatti: Abèl Ricardo Laudonio nel biennio ’64-65, Fuji in ginocchio, Joe Brown e Sandro Lopòpolo, un abbraccio con l’amico Mònzon, la sconfitta con il colombiano Antonio Cervantes nel ’73,  l’incontro del ritiro a San Carlos de Bariloche contro Ricardo Molina Ortiz il 7 agosto del 1976. “136 incontri, 117 vittorie, 15 pareggi e 4 sconfitte. Non male ma il pugno del Mocho Hernandez fa ancora male. Non riuscii a schivarlo”. Chiosa toccandosi la mascella con le chiavi  della Volkswagen Derby in mano.

Nicolino Locche con la caratteristica guardia bassa.

Nicolino Locche con la caratteristica guardia bassa.

Accosta davanti al Gimnasio gestito con Osvaldo Corro, campione sudamericano dei pesi welther, fratello di Hugo, vincitore del titolo mondiale della stessa categoria. I suoi allievi attendono sul cordolo della strada, concedendogli i minuti per il canonico rito della fumata prima del “Buenas tardes chiquillos”. Preferirebbe vederli senza guantoni, i ragazzi. Quando uno di loro perisce, sussulta in preda ai sensi di colpa. “Insegno l’autodifesa” attacca rauco. “Se vogliono diventare dei picchiatori di strada possono andare da un’altra parte”. Educa a difendersi con grazia, senza prevalere sull’altro. Perché quando la sorte attacca è più difficile canzonarla, porgendole il volto che provare a suonargliele. “L’importante è ritrarre la guancia nel momento giusto“. Ghigna rauco. “Tarzàn”, un indio mapuche di 11 anni, segue le sue indicazioni. Non ha talento e difficilmente diverrà un professionista. Lo capirà da solo. Non lo pagano per stroncare sogni. Si trasformerà in un adulto privo di fede senza il suo apporto. Lui, al contrario, fu costretto a bruciare le tappe e crescere velocemente all’età di 8 anni quando Don Felipe, suo padre, il sardo taciturno scomparve nel crepuscolo portandosi nel fagotto la sua infanzia e quella degli altri cinque fratelli. Señora Nicolina, sua madre, prima di smarrirlo nelle strade di Mendoza, lo portò nella palestra Julio Mocoroa, consegnando al Professor Bermùdez. “Don Francisco ci pensi lei a questo ragazzo, non so più che farne”. Francisco “Paco” Bermùdez acconsentì, plasmando quel picaresco bambino che si nascondeva con il sigaro in bagno, in una leggenda sudamerica “Intoccabile”.  Fu il primo e l’unico allenatore della sua carriera, un amico, una guida, un confidente negli anni della formazione e della miseria. Un’adolescenza problematica lo inghiottì risputandolo a 19 anni come un uomo fatto e finito al debutto da professionista l’11 dicembre del ’58 contro il sanguigno Luis Garcia, messo knockout in due round. “Tàrzan, non siamo in una sala da ballo”. Riprende l’allievo imitando la cantilena del vecchio maestro. Quando il “Paco” mori nel ’97, Nicolino non proferì parola per giorni interi.

Locche sul ring

Locche sul ring

“Total esta noche, minga de yirar, si hoy pelea Locche en el Luna Park”, Un Sabàdo màs di Chico Novarro guida il suo ritorno a casa. Il tango si ascolta di sera, di mattina si esce in strada. Oltre i finestrini, appannati dalla condensa e dall’umidità, le luci distorte della periferia corrono cedendo terreno ai campi di grano. La notte di Mendoza ha il profumo dolce dei meleti di Tunuyàn, raggelati dal freddo andino che soffia nella valle e si annida dentro il letto, nel cumulo di ossa avvolte in una coperta di pelle raggrinzita. Ha la buonanotte di don Felipe e il racconto dell’odissea in mare di Nicolina. È il fratello che urla: “Argentina, Argentina!” appoggiato alla balaustra del ponte. La famiglia unita, stretta da Montevideo e Buenos Aires, in un abbraccio, nel Rio de La Plata. È l’aria che viene a mancare, l’afa come quella della notte a Panama City quando Paco buttò l’asciugamano per terra e consegnò la cintura ad Alfonso “Papermint” Frazer. L’inizio della fine. Una sigaretta, un’altra, un’altra ancora, un tiro a pieni polmoni per scacciare i cattivi pensieri e dare colore alla notte. È sorridere a denti stretti sentendo una fitta al petto, abbassare la guardia e lasciarsi colpire in pieno volto, in mezzo agli occhi stanchi. Nascondersi dentro quegli occhi, raggomitolarsi sul fondo e non uscire più da essi.

Fiorenzo Pala

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