L’analisi e il racconto sull’ennesimo incubo Torres a cura di Fiorenzo Pala
Vedere la Torres in Eccellenza fa male. Ascoltare il silenzio del “Vanni Sanna” ammutolito mentre scorreva via la gara contro l’Avezzano lacera nel profondo e butta sale sulle ferite di chi credeva alla rincorsa. L’ambiente, sofferente, rantola in agonia sferzato dall’ennesima sciagura di oltre dieci anni tormentati. Gli occhi assenti, stanchi di affidarsi a speranze futili e finali favolistici, guardano la realtà con cinico realismo. La stangata è arrivata. La vittoria di misura del Muravera in casa dell’Ostiamare ha chiuso le pratiche della condanna e affidato i torresini alla mannaia del boia.
Le speranza di accedere alla roulette russa di uno spareggio (col Muravera) da vincere per conquistarne un altro (col San Teodoro) non è mai venuta meno. Così come il supporto caloroso della Curva Nord, incessante nonostante il vantaggio dei sarrabesi e il pareggio a reti inviolate che maturava all’Acquedotto. Sugli spalti si seguivano due partite. Un occhio rimaneva incollato sul terreno di gioco, l’altro sullo smartphone in attesa di news dall’“Anco Marzio” di Ostia Lido. I tifosi più attempati, privi di apparecchiature tecnologiche, preferivano voltarsi speranzosi verso i cronisti, in attesa di risposte rassicuranti. Il rigore trasformato da Mucili al 71’ stemperava le tensioni e metteva in ghiaccio la partita, negando il rammarico che sarebbe stato accentuato dalla mancata vittoria. Il palo di Vano, attaccante dell’Ostiamare, al 92’ era l’ultimo sussulto prima del triplice fischio più amaro, che materializzava l’incubo. La Curva Nord applaudiva mentre scorrevano i titoli di coda e le lacrime copiose dei calciatori sassaresi, rincuorati dai ragazzi del settore giovanile turritano. La Tribuna si svuotava seguendo la fiumana di teste basse verso i tornelli in un vociare di rimorsi e alibi. In disparte un uomo commosso glissava rabbioso: “Eravamo retrocessi da tempo”.
La retrocessione è la chiusura di un ciclo iniziato, sotto cattivi presagi, più di dieci anni fa con i vari crac e gli svariati protagonisti, interrotto da quella parentesi Lorenzoni che non fu antipasto di gloria, bensì del nuovo baratro targato Capitani-Piraino. (Oltre) due lustri caratterizzati da salite tortuose e rocambolesche cadute, aspettative mal riposte e rincorse insperate (e disperate) nella girandola di vicissitudini caotiche e verità sussurrate flebilmente. Anni segnati dalla paura costante di essere abbandonati e lasciati soli, da cambi di rotta e concessioni elargite a personaggi poco raccomandabili, in cambio di vuote certezze da consumare sul momento. I progetti son rimasti in bozze. Son state molteplici le ditte che si sono susseguite alla guida dei lavori in casa Torres. Non son mancati i leader carismatici e gli slogan propagandistici che preannunciavano sconvolgimenti eclatanti, aria nuova e cambiamenti senza pari. Parole al vento. Il cantiere è stato abbandonato con pronta regolarità dopo l’apertura, al termine di un abbellimento formale. Una mano di stucco e una di calce per cambiare volto a pareti in rovina. L’apparenza ha vinto a discapito della sostanza e la palazzina rossoblù ha conservato, intatta, le sue vestigia decadenti, sgretolandosi poco a poco.
Il futuro, oltre ad apparire quanto mai incerto, fa paura. La parentesi di Salvatore Sechi ha aiutato a portare avanti una gloriosa baracca che voleva salvare faccia e categoria, per poi rituffarsi nell’ennesima estate di passione volta a sistemare la situazione finanziaria e ripartire con un progetto serio e sano. Senza l’apporto di un tifoso come Sechi, appoggiato da tanti altri dirigenti-tifosi-addetti ai lavori, il baratro sarebbe arrivato sotto Natale, e adesso occorre guardare dietro l’angolo. Ai vituperati bilanci, ai debiti, all’interesse dell’imprenditoria che dovrà rinnovarsi nei confronti di un gioiello chiamato Torres, il quale conserva reale appeal presso una piazza affamata, come dimostrano le presenze allo stadio da gennaio in avanti e i riscontri per le strade, reali e internaute. Una piazza che aspetta solo un qualcosa che purtroppo a Sassari sta diventando ignoto da troppo tempo: la normalità, il fare sport con attività manageriale vera e progettuale.
L’ennesima sconfitta non è solo della Torres. E’ di tutta Sassari, dei sassaresi che si son allontanati dalla squadra e hanno fatto spallucce nel momento in cui avevano il dovere di scendere nell’agorà, del loro mancato interesse, di tutti quei tifosi che hanno preferito conservare la spada e mettersi nelle mani di persone inqualificabili, per scoprirsi, a distanza di mesi, traditi. La colpa di questa situazione degradante va spartita con le istituzioni locali, mai capaci di andare oltre comparsate e dichiarazioni di circostanza, e con gli addetti ai lavori (sportivi e non) che dal 2013 hanno sposato e abbandonato la Torres, facendosi coinvolgere e salutando in silenzio o con polemiche sterili, con le pive nel sacco di una fregatura presa da individui poco raccomandabili.
“La Torres siamo noi” gridano gli ultras, che forse in questi mesi hanno rafforzato ulteriormente il loro legame alla maglia, e magari anche imparato qualcosa in più da quanto vissuto negli ultimi quattro anni. Chi, se non il popolo, rappresenta la Torres? Perché essa non è solamente la domenica allo stadio, è un sentimento di fede che mantiene il suo enorme valore, e che non può continuare ad essere divorato dagli eventi. La Torres è la colazione consumata laddove lo stemma societario rimane bello appeso vicino alla cassa, il libraio amico di Ezio Vendrame, i circoli dietro la chiesa del Rosario, il “Baffo” Del Favero nel tavolino d’onore in un bar di appassionati di Subbuteo, il vecchio innamorato di Karasavvidis (leggi qui), il murales vicino all’arco del Carmelo e una scritta scendendo per Piazza del Mercato che dice: “Per quanto voi vi sentiate assolti siete pur sempre coinvolti.”
Fiorenzo Pala