SUPER SANTOS – Elie, storia di un migrante: Camerun, Gallura e Serie A?

La storia di Elie, migrante dal Camerun con un sogno nel cassetto…

Una foto di Elie, sorridente e felice di poter parlare di calcio con me

Una foto di Elie, sorridente e felice di poter parlare di calcio

Comunicare è un’esigenza naturale per esprimere noi stessi, esternare emozioni e necessità, per stabilire contatti e per sopravvivere. Ma non è detto che solo la parola possa permettere di aprirci agli altri. Ci sono anche il sorriso, la gestualità, l’empatia e gli occhi. Tutte cose che possono parlare di noi, tradendo le nostre paure, desideri, sensazioni, bisogni e dolore. In alcuni casi, però, trasmettono gioia, purissima. E’ quanto sono riuscito a leggere nei due occhi neri che mi sono trovato davanti in un pomeriggio di una domenica qualunque, all’inizio dell’estate.




Tutto è cominciato con il sollecito invito di mio padre ad assistere ad una “partitella tra squadre di migranti“, per poter vedere personalmente un ragazzo dal piede “felice”. Mai disobbedire ai genitori, specie a quelli che di calcio ne hanno sempre masticato.

Campo sportivo di Trinità d’Agultu, in Gallura. La giornata è splendida e una leggera brezza riesce a farmi dimenticare le ore di sonno perse per seguire l’impaziente (e insistente) genitore. La comunità trinitaiese e quella di Valledoria, in Anglona, hanno accolto gruppi di migranti e organizzato un incontro fra due squadre formate dagli stessi. Mi sistemo a bordo campo, con noi c’è un amico di
famiglia che condivide il medesimo entusiasmo verso quanto stiamo per vedere.

E’ uno sguardo qualificato il suo, perché Giovanni Zedda ha avuto un passato di tutto rispetto nelle polveri del calcio regionale. Valledoria in Promozione fino ai 23 anni, poi il Thiesi, allora in Serie D, aveva deciso di portarlo con sé. “Ma io sono una testa calda sai – mi dice – e in una partita picchiai arbitro e chiunque mi passasse davanti, prendendomi sette anni di squalifica.” Una carriera di un buon regista stroncata in un attimo di follia, ma mai abbastanza folle da allontanarlo dalla sua grande passione: il calcio.




E allora eccolo qua a bordo campo ad osservare questi ragazzi che per lui sono come figli. Ma uno di loro, prepotentemente e con un mancino squisitamente terribile, cattura la nostra attenzione. Si chiama Elie, e a fine primo tempo (privo di gol e tiri in porta) prende la palla, va a centrocampo e inizia a palleggiare, con i piedi, le spalle, la testa. Mio padre si gira verso di me, ha la bocca spalancata. Giovanni invece ha il solito sguardo di chi pensa “Lo sapevo”. Elie non è ancora entrato in campo: il suo allenatore, un altro ragazzo migrante, non gli ha concesso neanche un minuto.

Elie e Giovanni Zedda

Elie con Giovanni Zedda

Fallo entrare“, tuona il mio vecchio. Lui, contrariato, accetta. Via alla ripresa: Elie, che gioca con due scarpe da ginnastica totalmente inadatte, prende la palla, un dribbling, un altro ancora e un tiro che si stampa sul palo. Il pallone torna indietro, il ragazzo continua a rincorrerlo, lo recupera, scambia di prima con un suo compagno, arriva alla conclusione, ma è debole. Giovanni si avvicina e gli dice: “Vai a fare gol“. Stavolta parte dalla destra, dribbling, ancora un dribbling, un altro, mancino a giro, palo e gol. Ma cosa ho appena visto?

Le parole sono poche, è rimasto solo stupore. “A fine partita invitiamolo a casa“, dico. E poco dopo ci ritroviamo tutti seduti intorno al tavolo del mio salotto. Volevo sapere la sua storia, lui però parla solo francese e io lo capisco a malapena. Mi chiede di porgergli un foglio: Ngangue Elie, nato il 15/07/1998 a Douala, Camerun. Come prima cosa mi dice che è qui da solo sette giorni, poi mi racconta qualcosa di lui: “Sono nato con il pallone tra i piedi, il pallone per me è tutto quello che ho. A 8 anni ho iniziato a giocare con il Cetef, una squadra nella quale ero compagno di Fabrice Olinga“. Fabrice Olinga non lo conoscevo, ma mi è bastata una piccola ricerca per scoprire che si trattava di un calciatore camerunense diventato professionista grazie alla “Samuel Eto’o Foundation”, un’accademia che il famoso attaccante ex Barcellona e Inter ha fondato per riuscire a fare da tramite tra i suoi giovani connazionali e l’Europa del calcio.

Ho dovuto smettere dopo solo un anno ma ho continuato ad allenarmi, non facevo altro che giocare in strada o ovunque ce ne fosse la possibilità“. Poi a 13 anni la chiamata nella seconda divisione del suo Paese, la nostra Serie B. “Ho giocato con la Noweska, la Kadji Sport Acade e la Dymic de Bueia“, tutte squadre colme di giovani ragazzi con il sogno di diventare professionisti. Lo stesso di Elie, che ha un dio in cui crede più di qualunque altra cosa al mondo: “Voglio conoscere Samuel Eto’o, io so che se lo incontrassi mi aiuterebbe.” E qui mi fermo. Mi trovo di fronte a una storia di quelle molto lontane dalle comuni disgrazie da bar e, forse egoisticamente, come sempre affascinato da chi nella vita il fallimento l’ha assaporato più volte, voglio godermi ogni attimo.

A chi pensa che il calcio sia solo un gioco farei vedere il suo sguardo, travolgente e in grado di luccicare di fronte alla semplice idea di un calciatore fortissimo. Le parole che mi sta per proferire sono taglienti come la lama più affilata sul mercato, in grado di spezzare il velo di superficialità che alcuni politicanti folli ed estremisti vogliono farci indossare. Perché a 17 anni la sua vita calcistica si è interrotta e lui è stato costretto ad abbandonare la città. Boko Haram, associazione terroristica affiliata all’Isis, arriva a Douala e fa razzie di qualunque cosa trovi per la strada. Catturano lo zio, con il quale Elie vive da quando suo padre è deceduto e la madre si è stabilita con un altro uomo. La sua famiglia raggiunge suo cugino Salomon in Gabon e da qua iniziano il viaggio che dovrebbe portarli fino in Libia: attraversano il deserto, a piedi, giorno e notte, passando dal Mali e dall’Algeria fino a raggiungere Tripoli, dove vengono subito catturati dai ribelli.

Per essere liberati e partire per l’Europa avrebbero dovuto pagare, ma i soldi non c’erano. “Per questo ci frustavano – continua a dirmi con una voce che lascia trasparire orgoglio e timidezza allo stesso tempo – fino a quando non abbiamo conosciuto Mamadouh…“. Un capo delle milizie di ribelli che si affezionò alla loro famiglia (composta da 7 persone, con la zia e i cugini) e fece in modo di farli partire senza dover pagare niente. Non voglio continuare a chiedergli dettagli sulla sua traversata, penso mi abbia già detto troppo, e taglio corto: “Dall’Africa a Cagliari, quindi Valledoria?“. “Exact“, mi risponde lui. La prima cosa fatta raggiunto il Nord Sardegna è stata, appunto, bussare alla porta di Giovanni per chiedergli di farlo giocare.

Torniamo a parlare di calcio e mi spiega con un disegnino il suo ruolo di punta centrale. Si incanta quando nella nostra televisione capita la replica di Brasile-Ecuador. Probabilmente una partita in uno schermo non l’aveva mai vista, ma è felice. Non può immaginare quanto lo sia anche io. Ho appena visto giocare un attaccante veloce, tecnico, potente fisicamente e intelligente tatticamente. Se potessi ci punterei domani. Ho appena sentito, nelle sue parole, una gioia di vivere che è stata forte quanto un pugno sullo stomaco.

Il foglio dove Elie mi ha spiegato il suo ruolo

Carta e penna: Elie spiega il suo ruolo ideale

Come la musica anche lo sport è un linguaggio universale che può e deve unire i popoli. E’ la grande bellezza sta nel rifiutare ogni diversità, nel considerarla come valore aggiunto. Nell’ottica di un ideale comune. Quanto sappiamo di sopravvivenza, quanto ignoriamo la possibilità di futuro inteso solo ed esclusivamente come semplice conservazione della vita. Nel dare tutto per scontato quasi dimentichiamo l’emozione di svegliarci ogni giorno e poterlo affrontare.

Provo solo ad immaginare quanto possa essere stato difficile conservare un sogno, il sogno di diventare calciatore, nella vecchia e brava Europa, il posto dove altri ce l’hanno fatta. E l’hanno raccontato.  Brillano quegli occhi che narrano un mese di prigione, le percosse e le minacce. Hanno potuto spegnere la linfa, l’essenza di una meta da raggiungere, l’unica fonte di vita. Lui ed il pallone. Quasi una catarsi. Quasi una medicina.

E allora perché non essere raccoglitore di un desiderio e, come un fragile oggetto di vetro, esserne custodi. Nel perpetuo avvicendarsi di situazioni e coincidenze, che, in un pomeriggio di una domenica qualunque, ti si pongono dinanzi.

Oliviero Addis



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